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Arte e cultura
Leggenda e tradizioni
Il fazzoletto di Donna Olimpia
Donna Olimpia Maidalchini è stata una delle protagoniste della Roma del XVII secolo, soprattutto in virtù dello stretto legame con il cognato, Giovanni Battista Pamphili, che lei stessa accompagnò, con la propria presenza e soprattutto col sostegno economico, al soglio pontificio, dove fu eletto Papa Innocenzo X.
La sua non fu una presenza discreta: divenne la dominatrice indiscussa della corte papale e di tutta Roma, ottenendo enorme potere ed ingenti ricchezze.
Alla corte pontificia faceva ciò che voleva: falsificava documenti, rubava prebende, faceva scomunicare i nobili più abbienti o addirittura li faceva andare al rogo per appropriarsi dei loro beni.
Chiunque volesse parlare col Pontefice doveva prima passare da lei, e tutte le decisioni da lui prese dovevano essere approvate da Donna Olimpia, tanto che si guadagnò il soprannome di “Papessa”, con allusione anche ad una sua potenziale relazione col cognato.
Questa potente e controversa donna acquistò il Castello di Alviano nel 1654, versando all’asta ben 265.000 scudi, e a quanto pare per passare il tempo tra queste mura aveva inventato un giochetto piuttosto crudele.
Il primo esempio, quello che tutti conoscono, riguarda la tragica sorte di Tommaso di Gramiccia, detto “Ramicciaro”, che un pomeriggio tornava dalla villa, arrabbiato perché aveva sentito dire che la sua amata Luciola aveva dato troppe attenzioni ad un altro uomo, tale mastro Ridolfo.
Decise così di omaggiare delle proprie attenzioni la sua Signora, e ne ebbe subito l’occasione quando, passando sotto al finestrone del castello, alla donna cadde (o fece cadere?) il fazzoletto, ed egli decise di riportarglielo.
Donna Olimpia ringraziò il giovane occupandosi di lui, facendolo riposare e rifocillare con un ricco pranzo, servito con tutti gli onori del caso, e pretendendo infine di soddisfare le proprie voglie a letto.
Dopo molto tempo, mentre Tommaso si stava rivestendo, Donna Olimpia lo accusò urlando di essersi abusivamente introdotto in casa sua, e lo fece prendere da due servi che lo gettarono nei trabocchetti dei sotterranei, dove mille coltelli lo trafissero.
Sembra che molti giovani, dopo di lui, siano scomparsi improvvisamente, perché caduti nella stessa trappola.
Che sia solo una leggenda? Chissà… ossa e coltelli, nei sotterranei, sono stati trovati veramente.

FONTE: Luciano Canonici, Le leggende del Tevere, 1979

 
Il Pian della Nave
C’era una volta…una nave. O meglio, un barcone sconnesso a bordo del quale gli Etruschi avevano già affrontato gli Umbri per la conquista delle terre da una parte e dall’altra del Tevere.
In seguito, la minaccia della conquista da parte dei romani aveva portato Etruschi e Umbri ad unirsi per difendersi dal nemico comune: sulla sponda destra gli Etruschi da Orvieto, Viterbo, Bracciano e le colline circostanti, sulla sinistra gli Umbri, provenienti da Interamna (Terni), Amelia, Narni ecc..
L’incontro fu là dove oggi termina il lago d’Alviano, all’altezza della diga, dove anche all’epoca il fiume faceva un salto: lì i romani, che avevano risalito il Tevere da Orte, aspettavano la barca stracarica dei combattenti del luogo, che per disgrazia si arenò tra la melma e le giuncaie.
La battaglia fu terribile, una vera carneficina da entrambe le parti, ma la vittoria dei romani fu presto evidente ed immediatamente si levarono dalle sponde del fiume grida e pianti di vecchi, mogli e bambini che avevano visto morire i propri cari, ma anche l’indipendenza e la patria.
E così, ancora oggi, quella battaglia e quel luogo vengono ricordati come “pianto della nave”, e la zona si chiama appunto “Pian della nave”.

FONTE: Luciano Canonici, Le leggende del Tevere, 1979

 
L'uomo dal teschio in mano
Caio Popilio era un tribuno romano, che aveva fatto carriera grazie ai suoi atteggiamenti populistici che gli avevano fatto guadagnare la simpatia della gente.
Quando però Bruto assassinò Giulio Cesare alle Idi di marzo, gridando nel foro romano “Viva Cicerone, Viva la Libertà!” vedendo in lui l’uomo che avrebbe ristabilito l’ordine della Repubblica, Antonio temette fosse ormai giunta anche la sua fine.
Per questo, Antonio mise Popilio sulle tracce di Cicerone, che lo raggiunse presso la sua villa di Formia e lo uccise, tagliandogli la testa, che poi nascose dentro ad un sacco.
Popilio era combattuto: non sapeva se dare la testa ad Antonio, facendosela pagare, o se tenerla con sé come un amuleto portafortuna, per scaramanzia.
Alla fine la tenne, e decise di fuggire da Roma: si imbarcò sul Tevere, una strada più sicura rispetto alle vie consolari, e si stabilì in Umbria, dopo aver superato la convergenza col Nera, proseguendo a sinistra per qualche chilometro.
Sulla collina alle sue spalle c’era un piccolo villaggio, Albianum, ma il posto era tranquillo, perfetto per fermarsi a vivere, tra le giuncaie e i canneti, e così vi impiantò il suo presidio: villa, campi, e un podere chiamato Popiliano.
Tra le canne c’era una caverna, e lì aveva nascosto in gran segreto il sacco con la testa di Cicerone.
Negli ultimi mesi della sua vita Popilio passava moltissimo tempo nella grotta, facendo preoccupare moglie e figli, e lì dentro morì all’improvviso mentre stringeva convulsamente il sacco del mistero, e lì lo seppellirono senza riuscire a staccarglielo dalle mani.
I secoli passarono, e circa 1000 anni dopo arrivarono dei monaci da Soratte e dal Cimino, che fondarono a Popiliano un monastero in onore di San Silvestro.
I monaci, ben presto, cominciarono a sentire voci misteriose, a vedere segni strani, e ben presto nessuno voleva più camminare nei corridoi di notte, perché spesso appariva una luce di una lampada a forma di teschio, tenuta in mano da uno scheletro.
Un giorno, il priore del monastero trovò per caso una pergamena e, grazie ai suoi studi, gli parve che si trattasse di un testo di Cicerone: appena scese nella cripta di San Silvestro, le luci si spensero con una folata di vento e sentì un ululato che lo immobilizzò dal terrore.
Improvvisamente apparve sull’altare quello scheletro, che teneva la lampada-teschio per il collo, come se volesse strangolarlo: il teschio aprì la bocca e con un rantolo disse “Causa causarum, miserere mei!”, la stessa frase che il priore aveva letto sulla pergamena, e che Cicerone aveva pronunciato al momento della sua morte.
Il povero priore ebbe solo il tempo di alzare la mano per fare il segno della croce verso il teschio, prima di morire dalla paura.
Quando sono stati fatti gli scavi di Popiliano, tantissimo materiale ha rivisto la luce: cocci, pietre, vecchie condutture di piombo di epoca romana, una piscina pavimentata a mosaico, tombe, anche monete dell’epoca di Silla.
Ma soprattutto è stata ritrovata una tomba piuttosto strana, di fronte alla quale il lavoro si è fermato: dentro c’era uno scheletro intero, ben conservato, che stringe tra le mani un teschio mummificato, con occhi spalancati e bocca aperta, dalla quale si intravede una lingua che sembra viva.

FONTE: Luciano Canonici, Le leggende del Tevere, 1979

 
Tradizioni

Tra le varie tradizioni e feste religiose di Alviano se ne ricordano due in particolare che rappresentano lo spirito della comunità.
La prima consisteva nell’andare di casa in casa “accattanno per i morti” : per tutto il mese di novembre i ragazzi giravano per il paese bussando alle varie porte e chiedendo uova, formaggio e pane in cambio di preghiere da recitare in famiglia.
La tradizione è finita con la seconda guerra mondiale, ma da qualche anno è stata ripresa col tradizionale giro della Vecchiarella, che tra il 5 ed il 6 gennaio passa casa per casa cantando per le anime del purgatorio, in cambio di elemosina.
L’altra tradizione si riferisce ad alcuni secoli fa, quando ancora Alviano era sotto il feudo del principe Doria Pamphili: il giorno dell’Immacolata, l’8 dicembre, si usava scegliere fra le zitelle del paese tre donne alle quali lo stesso principe assegnava la dote.


News
06 Maggio 2022
L'inviata di Repubblica Cristina Nadotti - a settembre - scriveva "nei dintorni di Alviano, due case di paglia sono già state restaurate, ci sono acquirenti interessati e si comprende bene il perché. Appena prima dell'ingresso in paese, una delle più belle ha la vista sul lago, zona umida tra le più importanti dell'Umbria, e nonostante la giornata di caldo afoso una volta varcata la porta di ingresso i suoi muri traspiranti regalano all'ambiente un fresco gradevole, senza bisogno di condizionatori. La casa è un edificio semplice a un piano, ma è perfetta per chi cerca un reale contatto con la natura e ha ben presente quanto i materiali da costruzione più usati oggi siano impattanti per l'ambiente, mentre le case di paglia sono completamente sostenibili in ogni fase della loro vita: quando le si costruisce, quando necessitano di manutenzione e infine quando si dovesse demolirle. I muri sono fatti, appunto, di paglia che resta dallo scarto della lavorazione dei cereali, e di terra, in particolare argilla, che serve a impermeabilizzare e stabilizzare. Ci sono poi le tegole per il tetto e le travi di legno per lo scheletro. Un tempo, le finestre con infissi in legno talvolta erano chiuse soltanto da teli, oggi ci sono normali vetri". Qui l'articolo completo
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